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domenica 4 aprile 2010

"Travolto da una valanga, devo la vita a un miracolo"

lunedì 15 marzo 2010

Pale di San Martino, nelle Dolomiti. La catena settentrionale è una successione di cime, torri e pinnacoli che sfiorano, o superano, i tremila metri. Fino a giugno tutte le cime, tranne le pareti più verticali, sono coperte di neve. Neve che agli occhi di un profano appare candida ma repulsiva, impercorribile, attaccata contro la forza di gravità a pendii e creste modellate dal vento.
Proprio là un difficile itinerario consente di scalare la cresta da sud a nord, dal passo del Travignolo al Passo delle Faràngole. Una cavalcata in alta quota sul filo di cresta, tra saliscendi, cime, pendii e canali. Una via sinuosa, che gli alpinisti devono saper trovare e tracciarsi da soli, alternando gli sci con le pelli a piccozza e ramponi.
Aprile 1999. Matteo Sgrenzaroli e Stefano Governo, alpinisti veronesi, sono gente navigata. Centinaia di ascensioni all’attivo su roccia e ghiaccio, sono anche provetti sciatori alpinisti. All’alba del 9 aprile calzano gli sci e affrontano decisi il ghiacciaio del Travignolo. Ancora non lo sanno, ma li aspetta il giorno probabilmente più lungo e difficile della loro vita.
«Siamo partiti molto presto, la mattina, dal passo Rolle - racconta Sgrenzaroli a ilsussidiario.net -. La traversata è molto lunga, ma le condizioni erano buone e andavamo spediti. Il rischio valanghe era accettabile: il bollettino dava grado 2 (il grado di rischio va da 1 a 5, ndr), con possibile zero termico in rialzo. Però in una zona e in un percorso complesso come quello, le condizioni della neve non sono mai uniformi, variano da versante a versante e anche nel corso della stessa giornata la neve si trasforma».

Dunque eravate impegnati nella traversata.

Eravamo a buon punto, ma ancora molto in alto. Avevamo scavalcato Cima Vezzana, eravamo scesi con gli sci nella conca dell’alta Val Strut, per poi risalire con un ripido canale verso Cima dei Bureloni. Ci aspettava dall’altra parte una lunga discesa fino al Passo delle Faràngole e da lì fino al Passo Rolle. Insomma, sembrava cosa fatta.

E invece?

Siamo usciti dal canale, che porta ad una stretta forcella nevosa, molto aerea, poco sotto Cima dei Bureloni. Lì abbiamo mangiato un boccone, e abbiamo dato un’occhiata. In un attimo saremmo potuti andare in cima. Abbiamo piantato gli sci e siamo andati senza, perché il passaggio è stretto e molto esposto. Tra l’altro c’erano ancora vecchie tracce di sci, lasciate da alcuni nostri amici che erano stati là appena una settimana prima. Saranno state circa le tre del pomeriggio. Il tempo era buono, ma faceva abbastanza caldo. La temperatura era comunque sotto zero.

A quel punto cos’è successo?


Camminavamo abbastanza vicini, io ero davanti. Avevamo la piccozza e calzavamo i ramponi perché quel tratto è esposto e un po’ ripido. C’è stato un tonfo sordo, ovattato. Improvvisamente il pendio, l’intero pendio che stavamo superando si era staccato e ora ci veniva incontro! Ricordo una fortissima pressione in pieno petto. Da quel momento in poi è stato il buio. Ebbi per un attimo la percezione che eravamo finiti, perché ci trovavamo su un grande balcone spiovente coperto di neve. Sono stati secondi interminabili.

Cosa ricorda?

Ricordo bene molti particolari, però è come se li avessi vissuti in un sogno. Dopo un tempo che non so quantificare riaprii gli occhi. Mi ritrovai nella neve, sotto la luce accecante del sole. Poco distante da me c’era Stefano, anche lui in stato confusionale. Avevo botte dappertutto, la neve intorno a me era chiazzata di sangue. Poi ricordo bene Stefano che cercava di alzarmi in piedi. Fu in quel momento che sentii una fitta atroce, alla schiena. In uno stato dolorante e convulso cominciai a realizzare cos’era successo. La valanga ci aveva scaraventato nel vuoto, facendoci superare un salto verticale di 20-30 metri, e ci aveva poi trascinato in un canale fino alla base della parete. In tutto un volo di 350 metri, attutito in basso dal ripido pendio di neve. Una cosa era chiara: avevo sbattuto violentemente la schiena. Non sapevo con quali conseguenze, e questo mi terrorizzava. Sentii anche che il mio casco si era spaccato, aveva un buco nella parte posteriore. Stefano invece se l’era cavata ed era praticamente indenne.

Che cosa avete fatto?

C’era poco da fare. Io ero supino, immobile. Stefano tentò di telefonare col cellulare ma non c’era campo. A quel punto decise che l’unica possibilità era quella di scendere verso Garès. Di risalire a prendere gli sci neanche a parlarne, l’unica era di andare a piedi. Ora, solo se uno ha davanti una carta può capire cosa significa, dall’alto della Val Strut, scendere fino a Garès. È un viaggio interminabile, per di più su pendii estremamente ripidi, con un rischio altissimo di provocare valanghe finendoci sotto. Ricordo bene Stefano partire di corsa, poi più nulla. Mi risvegliai, supino. Il dolore alla schiena aumentava. Con la coda dell’occhio vidi non lontano il Bivacco Brunner, semisommerso nella neve. Cercai di farmi forza e cominciai ad arrancare verso il bivacco. Non riuscivo a stare in piedi e arrivarci trascinandomi fu un calvario. Devo averci messo delle ore e nel tragitto probabilmente sono svenuto diverse volte. Mi tolsi i ramponi e li buttai all’esterno, sul tetto, per segnalare la mia presenza. Aprii la mezza porta superiore e mi lasciai andare all’interno. Mi coprii alla meglio. Ero sfinito.

E il suo amico?


Stefano si è fatto in discesa 1300 metri di dislivello nella neve alta, sprofondando fino alla vita e correndo rischi enormi. Verso le 23, esausto, ha bussato alla prima casa di Garès gridando aiuto, ma nessuno gli ha aperto. Poi ha suonato ad un’altra casa, e la sorte ha voluto che abitasse lì un finanziere del Soccorso alpino. È stato lui a chiamare gli uomini del Soccorso di stanza al Passo Rolle, cioè dall’altra parte del gruppo. E qui mi lasci dire che quello che hanno fatto i soccorritori ha mostrato una generosità e una dedizione senza limiti.

Perché?

Volare con l’elicottero di notte non era possibile. Nemmeno si poteva risalire da dove era sceso Stefano, perché i rischi erano troppo grandi. L’unica soluzione per raggiungermi era quella di rifare il nostro percorso di salita! In piena notte, con un’andatura indiavolata, son partiti in due dal passo Rolle. L’unico aiuto che si sono concessi è stato quello di usare una motoslitta per raggiungere la base del Travignolo. Quello era l’accesso più difficile, ma anche quello più sicuro e più diretto. Mi ricordo che in piena notte si aprì la porta del bivacco. Erano le 4 del mattino e mi avevano trovato captando il bip dell’Arva (apparecchio ricerca valanghe, ndr) che avevo indosso. Hanno iniziato a farmi iniezioni di antidolorifici, mi hanno dato qualcosa di caldo e mi hanno fatto compagnia fino all’alba.

E poi come è andata a finire?

Al mattino presto è arrivato l’elicottero. I due che mi hanno trovato hanno dovuto battere una pista dal bivacco fino ad un punto più esterno per facilitare la ricezione radio, che in quella conca è quasi assente. Nemmeno recuperarmi è stato facile, perché l’elicottero non è potuto atterrare per la troppa neve ed è rimasto in hovering. Mi hanno bloccato e trasportato con una barella pneumatica, ma ricordo ugualmente delle fitte tremende. Mi hanno portato all’ospedale di Belluno. Solo allora hanno avvertito la mia famiglia che ero vivo, perché fino alla notte prima ero dato per disperso.

E in ospedale?

Mi si erano rotte due vertebre, la D11 e la D12. Ho avuto la fortuna di trovare un chirurgo ortopedico straordinario. Lui disse ai miei che era pronto ad intervenire subito per operarmi e mettermi un distrattore di sua costruzione. Due barre in titanio, collegate a formare un’impalcatura, da installare intorno alle vertebre per tenerle in posizione. Mio padre firmò il consenso. L’operazione durò 5-6 ore, mi prelevarono anche parte dell’osso dello sterno per ricostruire le vertebre. Dopo di che ho fatto tre giorni di terapia intensiva. Ho tenuto il distrattore fino all’aprile dell’anno successivo.

Nel dicembre scorso ha fatto scalpore la tragedia della Val Lasties, nella quale hanno perso la vita due alpinisti e quattro soccorritori sono morti. Quasi ogni domenica qualcuno ci rimette la vita. Perché, anche in presenza di rischi elevati, una persona va lo stesso?
Perché la voglia di andare in montagna supera la capacità, e la volontà, di valutare oggettivamente le condizioni. Anche noi, se ci fosse stato grado 3, non saremmo mai partiti; ma a stagione avanzata, con neve per lo più assestata e su un percorso di quella difficoltà, il grado 2 poteva essere un livello di rischio accettabile. Va detto poi che il grado di rischio diffuso nei bollettini è generalizzato, e non può riferirsi ad ogni angolo di versante. Le condizioni in montagna sono sempre molto locali e vanno valutate sul posto. È questo a rendere tutto molto, molto difficile. E a volte non basta.

Come le sembra l’approccio di giornali e tv a questo problema degli incidenti in montagna, soprattutto d’inverno?

I media confondono molto spesso incidente e incidente. Un conto è quello che capita appena fuori da una pista battuta, perché uno snowboarder provoca uno smottamento di neve fresca, con conseguenze anche disastrose. Altra cosa è un incidente che capita in alta montagna. Mi piacerebbe capire se in questi anni, proporzionalmente agli eventi nevosi, il numero di incidenti è realmente aumentato o no. La mia impressione è che sia semplicemente più pubblicato. Con questo però non intendo tirarmi indietro dalle mie responsabilità personali.

Cosa intende dire?

Ogni volta che ripenso a quelli che sono venuti a prendermi non mi do pace, pensando ai rischi che hanno corso. Quello che ci è successo mi sta sempre davanti agli occhi, non puoi cancellarlo. Quando sento di nuovi incidenti e di vittime provo disagio e tanta tristezza. Penso a tutte quelle persone che, a differenza di me, non ce l’hanno fatta.

Perché anche dopo un incidente come quello che le è successo, va via ancora con gli sci?

Per passione, perché è una cosa bellissima. La montagna non è una sfida al pericolo, ma l’esperienza di una bellezza che stando a casa non riusciremmo mai a immaginare. Certo un incidente come il mio è un fatto che ti cambia per sempre. Cerchi di far tesoro di quello che è successo. Diventi ancor più prudente, ti «fermi» prima. Sei molto più capace di rinunciare.

Si è mai chiesto come ha fatto a salvarsi?

Sì e mi sono anche dato quella che secondo me è l’unica risposta possibile. Non è stato né per un colpo di fortuna, né per una casualità se ci siamo salvati cadendo dal di là. L’incidente, i soccorsi, l’intervento… Tutto è andato in un modo che nessuna legge umana poteva prevedere a priori. Può essersi trattato solo di un miracolo.

(Federico Ferraù)

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